Da Pretty Woman a Poor Things, se notiamo, il sex work è davvero costante nel cinema. Anzi, dopo gli Oscar 2025, abbiamo esempi come quelli di Anora di Sean Baker, film che non fa della professione della protagonista il suo tema centrale, ma comunque sappiamo che il regista si è servito dell’aiuto di reali sex workers per rappresentare al meglio quel mondo.
Potremmo parlare anche di documentari come la serie Hot Girls Wanted che segue le vicissitudini di alcune ragazze appena entrate nel mondo del porno poi purtroppo deluse e affaticate dal loro contesto lavorativo. Rimane fondamentale, quando ci si avvicina ad un mondo tanto discusso come quello del sex work e delle narrazioni intorno ad esso, non porre subito un giudizio a riguardo ma osservare ogni storia a sé. Sembra si stia andando in questa direzione tra esempi come quello già citato di Anora o anche Pleasure di Ninja Thyberg del 2021.
Questo è ciò che fa Working Girls di Lizzie Borden molto prima, nel 1986. Il secondo film della regista riprende in maniera più dettagliata alcuni temi del suo primo film (Born in Flames) e racconta di Molly, una ragazza che lavora part-time in una casa comune a New York per supportare sé stessa e la sua ragazza Diane. Seguiamo le vite di Molly e le sue colleghe, di diversa età e estrazione sociale, mentre interagiscono con diversi clienti e la Madam della casa comune, Lucy.
Il film si apre con una scena mattutina familiare da pubblicità: Molly sveglia la sua ragazza e va a svegliare una ragazzina che vive con loro. Tutto è quieto in questo quadro familiare e nessuno si aspetterebbe mai che la protagonista sia una sex worker. Già qui Borden ci fa entrare nella dimensione privata della protagonista per dichiarare apertamente che la donna è una persona normale e il suo lavoro non la definisce. Da questo momento in poi il film si sviluppa completamente nell’appartamento in cui Molly e le sue colleghe lavorano, un luogo liminale da cui passano uomini diversi e in cui Lucy spesso assilla le ragazze con i suoi problemi personali e le richieste incessanti di lavorare qualche turno in più.
Così procede la routine lavorativa: ogni cliente ha preferenze leggermente diverse, ma alla fine si finisce sempre nello stesso modo e tra una condivisione e l’altra con le colleghe le ore passano. In Working Girls le situazioni si susseguono con una naturalezza documentaria che rende il tutto profondamente riconoscibile. Le ragazze si ritrovano in situazioni difficile, mai ritratte in modo drammatico, ma sempre trattate con un pizzico di ironia che si discosta dalle solite rappresentazioni femminili di chi lavora in questi ambiti.
Perché le donne di Working girls, oltre a essere delle professioniste del sesso, sono anche persone con libero arbitrio. La famosa agentività, che spesso manca ai personaggi femminili di altre produzioni, qui viene fuori nelle parole sussurrate e mozzate che descrivono la vita al di fuori di quell’appartamento, come l’idea di Gina di aprirsi una profumeria o la più giovane Dawn che studia per diventare avvocato. Il sex work nel film
di Borden non è una spada di Damocle che spezza la vita queste donne, viene rappresentato semplicemente come un lavoro. Un lavoro sicuramente singolare, ma che non cambia il valore di chi lo fa, sembra banale ripeterlo, ma sappiamo benissimo come certe professioni siano legate ad una narrazione tragica e che non approfondisce nessuna questione a riguardo.
Siamo abituati a vedere la sex workers sempre connesse ad un preciso immaginario, magari fatto di povertà e confusione mentale per cui questo lavoro diventa l’unica possibilità per sopravvivere. Nel già citato Pretty woman il film rappresenta il sex work in maniera glamour, una strada che Borden non prende minimante in considerazione. Inoltre Working girls abbandona completamente il patetismo e semplicemente mette in scena la vita di donne che fanno un lavoro che esiste e che sarebbe appropriato guardare da vicino invece di nasconderlo e demonizzarlo.
Attenzione, a nostro parere questo non significa che il film sia un totale inno positivo alla professione, anzi lo sguardo documentario di Borden non giudica mai, ma mostra anche i lati negativi di questa professione. Osserviamo Molly subire molestie da un cliente o sottostare alle volontà di Lucy senza poter far niente. Perché fin quando va tutto bene ogni uomo adora una sex worker, ma quando questa mostra che oltre la professione c’è una persona in carne ed ossa ogni momento è ottimo per ricordarle che è una professionista del peccato e dovrebbe vergognarsi di ciò. Una volta svelato il vaso di pandora gli uomini sono pronti ad attaccare addosso un’etichetta a Molly e le sue colleghe.
Esemplare a riguardo è la decisione finale di Molly di lasciare il lavoro e di non far più finta che tutto vada bene tra le continue vessazioni del suo capo e di alcuni clienti. Potremmo affermare che Working Girls finisce con un “lieto fine” che nasconde però la paura di aver sbagliato e di ritornare indietro.
Lizzie Borden fa venire fuori i lati più umani delle giornate delle sue protagoniste: uno sguardo, una risata o la condivisione di un problema lavorativo. Le persone che abbiamo avanti non provengono dalle visioni e narrazioni spesso maschili in cui spesso la sex worker è debole, sola e da salvare da un destino tragico, sono persone normali con vite altrettanto normali al di fuori della loro professione. Allo stesso tempo il sex work non appare glamour o come una scappatoia facile. La regista guarda ai suoi personaggi con empatia senza giudicare la loro professione o chi potrebbe dedicarsi a questa professione. È semplicemente un lavoro che, come la maggior parte dei lavori, spesso è tedioso e la paga potrebbe essere più alta.