La musica di Michel Legrand ci dice già molto di May December: è infatti il drammatico tema di Messaggero d’Amore di Joseph Losey (1971) che apre il film, di fatto stabilendo il tono scabroso di tutta la pellicola. Il generique del leggendario compositore francese (rielaborato da Marcelo Zavros) accompagna i titoli di testa che ci presentano il leit motif delle farfalle – su cui poi il film tornerà – e sinuosamente ci portano a Savannah, Georgia, dove l’attrice televisiva Elizabeth Berry (Natalie Portman) si sta preparando per andare a conoscere il soggetto del suo prossimo film: Gracie Atherton-Yoo (Julianne Moore) e la sua famiglia.
La famiglia Yoo potrebbe essere una famiglia normalissima: una madre, Gracie, che sta preparando la casa per il barbecue in giardino; un padre, Joe (Charles Melton) davanti alla griglia con una birra in mano; due figli prossimi al diploma e una più grande già all’università… insomma, nulla degno di un biopic. Se solo non fosse che la storia degli Atherton-Yoo ha una genesi scabrosa: Gracie ha incontrato Joe una ventina d’anni prima. Gracie aveva 36 anni, Joe 13. I due hanno intrapreso una relazione che ha portato Gracie a rimanere incinta e finire in carcere. Al suo rilascio, i due si sono ricongiunti e mai più lasciati.
Queste sono le premesse dell’ultimo film di Todd Hayes (Carol, Velvet Goldmine) presentato al Festival di Cannes 2023.
Il film è un lavoro di fiction che si ispira alla storia vera di Mary Kay Letourneau e Vili Fualaau e alla loro “relazione” (se così possiamo chiamarla) clandestina cominciata nel 1996 che poi diventa un matrimonio. Una vicenda succulenta, quella di un’insegnante che adesca un giovane ragazzo e che presto fa diventare Letourneau protagonista dei tabloid degli anni ‘90. È proprio questo uno degli aspetti che ha spesso citato come tra i più intriganti la sceneggiatrice Samy Burch (qui al suo esordio): la spettacolarizzazione del reato di Letourneau da parte della pervasiva cultura dei tabloid statunitense di fine anni ‘90.
Burch infatti, si è trovata davanti a questo caso di cronaca raccontato in modo voyeuristico e venduto come intrattenimento per il grande pubblico (pensate che esiste effettivamente un film per la TV basato sulla storia: All-American Girl: The Mary Kay Letourneau Story) quando sotto c’è una vicenda molto più sfaccettata e potenzialmente dolorosa, quella di Vili/Joe, che diventa infatti il centro emotivo del film. In qualche modo Burch, dando questa enfasi all’evoluzione di Joe e centrandolo così tanto, ci fa riflettere sul nostro ruolo di spettatori: che tipo di spettatori siamo quando assistiamo voyeuristicamente alle tragedie degli altri?
Questa domanda è uno dei fulcri centrali del film, e pur non venendo mai espletata pervade le scelte stilistiche della regia di Haynes, che privilegiando un'estetica esagerata, amplifica il contrasto tra la finzione dei tabloid e la vita vera, tra performance e genuinità.
Si è parlato molto di May December come di un film camp, merito soprattutto della scena iniziale (Gracie/Julianne Moore apre il frigo, suono stridente di pianoforte, silenzio: I think we don’t have enough hot dogs). Una risatina quella sequenza l’ha strappata anche a noi, è vero. Ma basta riprendere la definizione di camp formulata da Susan Sontag per capire che Haynes si muove fuori dal perimetro dell “artificio”, della “giocosità” ed “esagerazione” di cui la scrittrice scriveva nel suo saggio breve Notes on camp:
Camp is a certain mode of aestheticism. It is one way of seeing the world as an aesthetic phenomenon. That way, the way of Camp, is not in terms of beauty, but in terms of the degree of artifice, of stylization. To emphasize style is to slight content, or to introduce an attitude which is neutral with respect to content. It goes without saying that the Camp sensibility is disengaged, depoliticized or at least apolitical.
Se, da un lato, la teatralità di cui parla Sontag è uno dei temi principali del film (ma ci torneremo dopo), non è l’attitudine generale della pellicola. Vien facile confondere le due cose perché Haynes, come già accaduto in passato, si ispira in particolare al genere del melò.
Todd Haynes (e prima di lui Fassbinder) si è infatti spesso ispirato ai melodrammi di Douglas Sirk in precedenza, in modo sottile specialmente con Safe (1995) e Far from Heaven (2002).
Ma in cosa consistono i melodrammi? I film melò costituiscono un sottoinsieme del dramma, caratterizzato da narrazioni che tralasciano la verosimiglianza per invece provocare emozioni intense negli spettatori. Questi film tendono a ruotare attorno a crisi emotive, relazioni fallite, tensioni familiari, tragedie, malattie, lotte psicologiche e varie forme di difficoltà, presentando personaggi archetipici – spesso con scarsa caratterizzazione. Ogni sottigliezza narrativa e stilistica viene abbandonata per uno stile iper-espressivo: se pensiamo al maestro del melodrama, Douglas Sirk, tutto è tanto: la colonna sonora, il technicolor, la recitazione marcata dei suoi attori e attrici.
Dietro al melò c’è anche un messaggio, passateci il termine, “politico”, ed è qui che si trova la spaccatura tra melò e camp che ci interessa pensando a May December. Un elemento importante dei melò, e in qualche modo rivoluzionario era la forte componente “femminile”: spesso le protagoniste di questi film erano eroine che affrontano pressioni sociali significative, minacce, repressioni e ostacoli personali, offrendoci così degli spunti di critica di genere.
Se però i primi melò si prendevano molto seriamente nella creazione del pathos, Douglas Sirk ne fa una rilettura ironica, pur mantenendo un messaggio di fondo che per l’epoca era sovversivo, soprattutto rispetto alle questioni di genere ma anche talvolta toccando questioni di classe e razziali.
Una cosa interessante è stata detta dal critico David Kehr nella sua recensione di Written on the Wind di Sirk:
“...a screaming Brechtian essay on the shared impotence of American family and business life that draws attention to the artificiality of the film medium, in turn commenting on the hollowness of middle-class American life.”
Questa doppia lettura – politica e metacinematografica – dei melò non è una lettura scontata. Superficialmente i melodrammi potrebbero sembrare delle soap opere anche un po’ scadenti, dei film strappalacrime… dei film “da donne”; in qualche modo il messaggio sovversivo non corrisponde al tono esagerato e alle scelte estetiche magari considerate troppo leziose. Insomma, decifrare un melò coi suoi livelli di artificio, di esagerazione e di ironia non è sempre facile, perché si rischia di perdersi il centro emotivo e tematico rimanendo interdetti da una visione superficiale.
Allo stesso tempo, ponendo l’accento sull’artificiosità del medium cinematografico e la sua impossibilità di narrare appropriatamente o commentare i fulcri tematici del racconto, in qualche modo si potenzia il suo impatto emotivo. È come se, nel caso di May December, l’aspetto dell’ironia, dell’esagerazione nei toni e dell’artificiosità nelle immagini, diventassero degli strumenti che enfatizzano per contrasto la “lurida” vicenda di sottofondo del film, quella della storia tra Gracie e Joe. Dopo i mezzi sorrisi sulle battute sugli hot dog e sulle zoomate drammatiche, per contrasto lo snodo emotivo della presa di coscienza di Joe di quello che gli è successo diventa ancora più potente.
L’arte che imita la vita e la vita che imita l’arte. L’imitazione - o, per meglio dire, i tentativi di imitazione - è un tema ricorrente nella filmografia di Todd Haynes, che decostruisce e riplasma le icone culturali a suo piacimento (i miti musicale di David Bowie, Bryan Ferry, Marc Bolan e Bob Dylan in Velvet Goldmine e I'm Not There, e i pastiche del già citato Douglas Sirk, ma anche Alfred Hitchcock, Jean Genet e Fassbinder in Far from Heaven e Poison).
In May December, l’imitazione diventa centrale attraverso il tema della performance. Nei primi minuti del film, quando Elizabeth incontra Gracie osserva: “You look taller on television, but we’re basically the same size.” Siamo praticamente uguali. In quel “basically” c’è tutto lo sforzo che Elizabeth compirà per cogliere tutti i particolare nascosti di Gracie, quelli che vanno oltre la superficie dei tabloid e copiarli, esattamente come in un processo metacinematografico Natalie Portman imita Julianne Moore. Ma uguali, loro due, non lo saranno mai: questo sforzo continuo si traduce nell’angoscia e nella ripetizione dei ciak finali, e quando il cerchio si chiude quel “praticamente uguali” assume un tono più orrorifico. È il tema tradizionale del doppio, un doppio che, nel caso di Haynes, si identifica più nell’effetto uncanny valley, quella caratteristica emozionale che si presenta quando ci imbattiamo in un soggetto che è quasi, ma non del tutto, umano. Perché Elizabeth nel processo di imitazione diventa psichicamente divisa, mai del tutto sé stessa mai del tutto Gracie, e anche la storia che tenta di interpretare assumerà dei contorni contraddittori, a cominciare dallo stupro che Gracie avrebbe subito dallo zio in giovane età (ma che lei smentisce).
Entrambe avvertono il desiderio di raccontare la storia così come dovrebbe essere raccontata, ma entrambe finiscono per essere narratrici inaffidabili. Se Gracie accetta di essere studiata e interpretata da Elizabeth, è perché fino ad allora a raccontare la sua storia ci sono state solo produzioni a basso costo e ridicole (Elizabeth invece presenta il film come “un progetto indipendente"). Se Gracie non riesce a far sì che la sua sia semplicemente una vita come tante, forse è meglio che sia una storia, piuttosto che uno scandalo. Se il suo scopo sia stato raggiunto, non lo sapremo mai.
In conclusione, si può dire che May December riassume perfettamente gli stili, le poetiche e i temi di Todd Haynes, dall’amore e l’estetica per il melodramma al tema dell’imitazione, e che ci ricorda anche quanto sia bravo il regista di Far From Heaven a scovare nuovi talenti: la vera scoperta è Charles Melton, che abbandonato il set di Riverdale può finalmente impegnarsi in una pellicola profonda, che stuzzica lo spettatore, gioca con la sua pazienza, le sue aspettative, sa far muovere abilmente il compasso morale spingendolo a interrogarsi, a emozionarsi.